L'analisi di: monde-diplomatique.fr
Sconfitto a Roma e a Torino dal Movimento 5 Stelle
– una formazione politica che rivendica di essere «antisistema» - il
Partito Democratico del presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi
esce indebolito dalle elezioni comunali del 19 giugno. La sua riforma
del mercato del lavoro, il famoso «Jobs Act», ha sedotto i media, gli
ambienti padronali e i socio-liberali europei più degli elettori
italiani…
Di Andrea Fumagalli – Professore di Economia al
Dipartimento di Scienze economiche e commerciali dell’Università di
Pavia. Autore di La Vie mise au travail. Nouvelles formes du capitalisme cognitif, Eterotopia France, Paris, 2015 -
Il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi ama
presentarsi come un dirigente politico moderno e innovatore. Così la sua
riforma del mercato del lavoro avrebbe liberato il Paese dai suoi
arcaismi e fatto diminuire la disoccupazione. Note sotto il nome di
«Jobs Act», le misure adottate dal suo governo per rilanciare
l’occupazione non hanno fatto altro se non spingere ancora più avanti la
logica delle vecchie ricette liberiste.
La flessibilità del mercato del lavoro italiano ha
avuto inizio nel 1983, quando le parti sociali (federazioni sindacali,
padronato e ministero del Lavoro) hanno sottoscritto l’accordo Scotti
(1). Oltre che limitare l’indicizzazione dei salari in rapporto al costo
della vita, questo testo introdusse il primo contratto atipico, a tempo
determinato e destinato ai giovani: il «contratto di formazione e
lavoro». Dopo di allora numerose leggi hanno allargato la gamma dei
contratti disponibili, cosicché ne esistono oggi quasi quaranta. Nel
1997 la legge Treu ha legalizzato il lavoro temporaneo; nel 2003 la
riforma Biagi-Maroni ha inventato il contratto di lavoro effettuato in
subappalto. Nel 2008 è stato messo in opera il sistema dei voucher,
«buoni di lavoro» del valore di 10 euro lordi all’ora, utilizzati
soprattutto nei settori poco o per niente qualificati. La
diversificazione dei tipi di contratto è stata accompagnata da misure
miranti ad accrescere il potere dei datori di lavoro. Fra le più
recenti, la legge detta del collegato lavoro, votata nel 2010,
limita la possibilità per i salariati di ricorrere alla giustizia in
caso di abusi da parte dei datori di lavoro e la legge Fornero (2012)
facilita i licenziamenti individuali per motivi economici.
Le riforme messe in atto da Renzi nel 2014 e 2015
s’iscrivono nella continuità di questa storia e forse la concluderanno,
tanto hanno istituzionalizzato la precarietà. Così il contratto a durata
indeterminata «a protezione crescente» (CDI), entrato in vigore nel
2015, non ha molto di perenne né di protettivo. Nel corso dei tre primi
anni i datori di lavoro possono porvi fine in ogni momento e senza
motivazioni. Il loro solo obbligo è quello di versare al salariato
licenziato un’indennità proporzionale alla sua anzianità. L’emblematico
art. 18 dello Statuto dei lavoratori (2), che obbliga a motivare ogni
licenziamento individuale con una «giusta causa» (colpa grave, furto,
assenteismo…) si trova così posto fra parentesi durante trentasei mesi.
La formula ricorda il contratto di prima assunzione immaginato dal primo
ministro francese Dominique de Villepin nel 2006, tranne che il
dispositivo italiano non si limita a chi ha meno di 26 anni, ma concerne
l’insieme della mano d’opera.
Il governo Renzi ha ugualmente deregolamentato
l’applicazione dei contratti a durata determinata (CDD). Dal marzo 2014
la legge Poletti – dal nome del ministro del Lavoro Giuliano Poletti –
permette ai datori di lavoro di farvi ricorso senza doversene
giustificare e di rinnovarli fino a cinque volte senza periodo di
carenza. Questa limitazione è per di più teorica: non si applica alle
persone ma ai posti di lavoro. Quindi è sufficiente modificare sulla
carta una definizione del posto di lavoro per condannare a vita un
salariato al lavoro instabile.
In queste condizioni, perché le imprese sceglierebbero
dei CDI a «protezione crescente» piuttosto che una successione di CDD?
La risposta è semplice: per interesse finanziario. Il governo Renzi ha
effettivamente posto in opera incentivi fiscali che permetterebbero, per
tutti i CDI sottoscritti nel 2015, di risparmiare fino a 8.000 euro
all’anno. Poiché l’austerità lo esige (austerité oblige),
questa disposizione molto onerose per lo Stato è stata rivista al
ribasso dalla Legge di stabilità del 2016 e i guadagni possibili per i
datori di lavoro si stabiliscono ormai sui 3.300 euro. Il «Jobs Act»
quindi ha creato un effetto-pacchia: fare sottoscrivere un contratto «a
protezione crescente», poi licenziare il salariato senza
giustificazione, diventa più redditizio che non ricorrere a un CDD.
Grossolano tiro mancino statistico, il ribaltamento dai CDD verso i CDI
permette di gonfiare artificialmente le statistiche dell’impiego detto
«stabile», mentre la precarietà continua ad aumentare.
Le riforme di Renzi non hanno scatenato scioperi o
manifestazioni paragonabili al movimento contro la legge El Khomri in
Francia. Contrariamente alla sua vicina, l’Italia non ha salario minimo,
salvo che per i mestieri coperti da convenzioni collettive, che
proteggono un numero sempre più ridotto di lavoratori (oggi meno del
50%). D’altra parte non esiste il «principio di protezione»: nulla
obbliga gli accordi d’impresa a proporre per i salariati condizioni più
vantaggiose degli accordi di categoria i quali, da parte loro, non sono
necessariamente più favorevoli di quanto stabilisce il Diritto del
lavoro (3). I salariati sono così molto vulnerabili al ricatto del loro
padrone. Il Paese non ha nemmeno un equivalente del reddito di
solidarietà attiva (RSA) [ndt.: vigente in Francia, v. lavoce.info
], anche se condizionato al reinserimento professionale. Gli
ammortizzatori sociali sono pensati soprattutto per il salariato con
CDI: la massa dei nuovi precari se ne trova esclusa. Combinata alla
crisi economica, alla debolezza dei sindacati, al ristagno dei redditi e
al rafforzamento del controllo padronale - il «Jobs Act» autorizza
alcune tecniche di controllo a distanza dei salariati, con il rischio di
insidiare la loro vita privata – questa situazione spiega la debole
resistenza incontrata dalle recenti disposizioni.
Più del 40% dei giovani nella disoccupazione
Allo scopo di difendere le loro riforme, Renzi e i
suoi ministri si sono barricati dietro gli stessi argomenti dei loro
predecessori a Roma e dei loro omologhi conservatori in Germania o
socialisti in Francia: l’«ammorbidimento» del Diritto del lavoro sarebbe
una condizione necessaria (e sufficiente) per costruire un’economia
moderna e fare diminuire la disoccupazione, in particolare quella dei
giovani. «L’art. 18 data dagli anni ’70 e la sinistra allora non
l’aveva nemmeno votato. Noi siamo nel 2014; questo ci farebbe prendere
un iPhone e tornare a chiedere: “Dove si deve mettere il gettone?” o
tentare di mettere la pellicola in una macchina fotografica digitale», così ha ritenuto [di poter affermare] il presidente del Consiglio (4).
Il governo e molti media presentano il «Jobs Act» come un indiscutibile successo. «Un
mezzo milione di posti di lavoro creati nel 2015. [L’Istituto nazionale
di Statistica] dimostra l’assurdità delle polemiche sul Jobs Act», diffondeva ai quattro venti Renzi su Twitter il 19 gennaio 2016. «Con noi le imposte diminuiscono e l’occupazione aumenta»,
scriveva ancora il 2 marzo. È vero che nel 2015, per la prima volta
dall’inizio della crisi economica che ha distrutto circa un milione di
posti di lavoro, la curva della disoccupazione si è (leggermente)
invertita: - 1,8%... Tuttavia questa modesta inversione di tendenza si
spiega soprattutto con la spintarella fiscale che ha accompagnato la
creazione del CDI «a protezione crescente». Poiché il periodo di prova è
di tre anni sarà necessario attendere il 2018 per fare un bilancio di
questi nuovi contratti; ma già da ora si può constatare che la
diminuzione degli incentivi finanziari ha comportato un’immediata
contrazione nella creazione di posti di lavoro. Il numero di CDI firmati
nel primo trimestre 2016 è precipitato del 77% rispetto agli stessi
mesi dell’anno precedente (5).
D’altra parte, la diminuzione della disoccupazione nel 2015 maschera il ricorso esponenziale al sistema dei voucher,
in particolare nei settori poco qualificati, nei quali i prestatori
d’opera sono considerati intercambiabili. Nel 2015 erano toccate 1,38
milioni di persone (contro 25.000 nel 2008) e sono stati venduti 115
milioni di «buoni» (contro 10 milioni nel 2010) (6). Logicamente il
tasso di precarietà ha anch’esso seguito una linea ascendente: secondo i
dati dell’OCSE (Organizzazione di cooperazione e di sviluppo
economico), nel 2011 il 43% dei giovani italiani si trovavano in una
situazione lavorativa instabile; nel 2015 erano il 55%. Allo stesso
tempo il tasso di disoccupazione dai 15 ai 24 anni d’età è aumentato di
dieci punti, superando la soglia del 40%.
Eppure l’Italia non ha risparmiato i suoi sforzi per
uniformarsi alle norme dell’economia moderna: il «grado di protezione
dell’impiego» - un indice elaborato dall’OCSE per misurare la «rigidità»
del mercato del lavoro – vi si è ridotto di un terzo in dieci anni…
Dall’arrivo alla presidenza del Consiglio in poi Renzi
ha puntato tutto su una politica dell’offerta. Oltre al Jobs Act, le
Leggi di Stabilità del 2015 e del 2016 hanno pianificato riduzioni
d’imposta per le imprese, una riduzione delle tasse sul patrimonio, una
diminuzione delle spese delle collettività locali e la privatizzazione
di alcuni servizi pubblici (nel settore dei trasporti, dell’energia e
delle poste). Secondo la filosofia che orienta queste misure (7),
l’aumento dei profitti e la diminuzione dei costi comporterebbe
automaticamente un aumento degli investimenti e quindi della produzione e
dell’occupazione.
Questo ragionamento è ampiamente errato. La
disoccupazione in Italia non si spiega con le strutture interne del
mercato del lavoro: risulta innanzitutto dalla debolezza della domanda,
perché nessuna impresa si arrischia ad aumentare la sua produzione se
teme che i suoi prodotti o servizi non trovino compratori. Ora, il
governo Renzi non ha fatto nulla per rilanciare la domanda in modo
strutturale: né salario minimo, né riforma della protezione sociale a
favore dei bassi salari, né reddito garantito.
Risultato: dal 2014 il prodotto interno lordo (PIL)
ristagna e il rapporto debito pubblico/PIL non dà cenno di ridursi,
perché il denominatore del rapporto non aumenta. Il Jobs Act ha diviso
il mercato del lavoro in tre segmenti principali, ognuno dei quali vede
l’instabilità eretta a norma. Il primo raggruppa i giovani senza
formazione universitaria, che generalmente entrano nella vita attiva con
contratti di apprendistato (poco protettivi) e, sempre più, con voucher
(ancor meno protettivi). Nel secondo si trovano i giovani che
dispongono di un livello di qualificazione medio o elevato (corso
universitario triennale o master). Per favorire il loro inserimento il
governo si fonda sul Piano «Garanzia giovani». Finanziato dell’Unione
Europea e destinato ai Paesi che presentano un tasso di disoccupazione
elevato, questo Piano mira ufficialmente a migliorare l’«assumibilità»
dei giovani proponendo loro, attraverso piattaforme regionali che
riuniscono imprese private e pubbliche, «percorsi d’inserimento» adatti
alle necessità di quelle stesse imprese: il servizio civile (gratuito),
lo stage (quasi gratuito) e il lavoro di volontariato.
Sperimentato dapprima nel 2013 per l’assunzione di 700 persone nella
prospettiva dell’Esposizione universale di Milano (oltre a migliaia di
volontari), questo modello è stato in seguito trasposto a livello
nazionale (8). Esso ha già permesso di occupare 600.000 giovano e di
farli uscire, a costi minimi, dalle statistiche della disoccupazione.
Infine, per il resto dei lavoratori – vale a dire per quelli con 30 anni
o più – il CDD rinnovato indefinitamente e il CDI «a protezione
crescente» sono destinati a diventare i contratti standard fino all’età
della pensione. Soltanto i lavoratori giudicati efficienti e
indispensabili per il nucleo di attività dell’impresa possono essere
assunti in modo stabile e fidelizzati.
Come dimostra il Piano «Garanzia giovani», il lavoro
gratuito, alimentato dalla «economia della promessa» (9), che rimanda
sempre a più tardi l’ottenimento di un lavoro remunerato e stabile,
diventa la nuova frontiera della deregolamentazione del mercato italiano
del lavoro. Le riforme di Renzi hanno consacrato la condizione di
precario, conferendole una natura allo stesso tempo strutturale e
generalizzata. Ora, lo sviluppo della precarietà figura giustamente fra
le prime cause della stagnazione economica dell’Italia, che serve a
giustificare le misure miranti ad accrescere la precarietà del lavoro…
(traduzione dal francese di José F. Padova)
(1) Accordo del 22 gennaio 1983 portato avanti da
Vincenzo Scotti, ministro del Lavoro democristiano, che introdusse
ugualmente il calcolo per annualità del tempo di lavoro.
(2) Adottato il 20 maggio 1970, lo Statuto dei lavoratori fissa determinate norme del Diritto del lavoro italiano.
(3) Vedi Sophie Béroud, « Imposture de la démocratie d’entreprise », Le Monde diplomatique, avril 2016
(4) Discorso alla «Leopolda», riunione annuale pubblica del Partito Democratico, il 26 ottobre 2014.
(5) « Lavoro, INPS : “Nei primi tre mesi nuovi posti stabili giù del 77 % dopo il dimezzamento degli sgravi” », Il Fatto Quotidiano, Rome, 18 mai 2016
(6) Valentina Conte, « Boom di voucher : 277 milioni di ticket venduti in 8 anni », La Repubblica, Rome, 16 mai 2016
(7) Secondo il «teorema di Helmut Schmidt», ex
Cancelliere ovest-tedesco, 1918-2015, «i profitti di oggi sono gli
investimenti di domani e i posti di lavoro di dopodomani».
(8) Lorenzo Bagnoli et Lorenzo Bodrero, « Expo, i contratti di lavoro nell’occhio del ciclone », Wired.it, 27 avril 2015.
(9) Marco Bascetta (sotto la dir. di), Economica politica della promessa, Manifestolibri, Rome, 2015.